Piemonte, ecco il riso Bio che tutti possono controllare
La prima notizia è che il riso biologico si può fare. La seconda notizia è: le tecniche che permettono l’abbattimento dei diserbanti in risaia possono essere osservate da chiunque, anche da chi non è un agronomo, un chimico, un certificatore biologico.
Il riso “che si vede che è proprio biologico” lo produce la riseria Vignola di Balzola (Al), nella piana casalese, a due passi dal Po, dove le risaie ci sono da tre secoli. Qui, Giovanni Vignola, quinta generazione di confezionatori di riso, da due anni ha avviato una sperimentazione agricola che punta tutto sull’azzeramento dei fitofarmaci attraverso la pacciamatura.
La tecnica della pacciamatura è vecchia di secoli ma ha sempre riguardato verdure e piccoli frutti. In pratica, siccome i vegetali non crescono in assenza di luce, si copre con teli (un tempo erano paglia, foglie, resti di colture) la striscia di terreno dove si coltivano le piante “buone” che vengono trapiantate in corrispondenza di buchi nel telo. In questo modo le piantine di fragole, zucchini, cetrioli, carote etc. crescono, mentre le erbe che le soffocherebbero e toglierebbero nutrimento non possono crescere.
Visto che la pacciamatura esiste da sempre, quella di Vignola, in fin dei conti, è un po’ la scoperta dell’acqua calda, solo che, finora, nessuno l’aveva ancora applicata al riso.
«Per la nostra riseria il biologico è una strada di non ritorno – è convinto Giovanni Vignola, amministratore unico dell’azienda di molinatura del riso fondata nel 1880 – È stato un innamoramento a prima vista. Ricordo ancora alla fine degli anni ’90, le prime fiere in Germania a cui partecipavamo con mio padre. Lì abbiamo capito che dal centro e nord Europa il consumo di alimenti puliti, senza chimica, si sarebbe esteso a tutto il continente e che sarebbe diventato sempre più importante per i Paesi dove dovevamo esportare il nostro riso. Oggi il Bio rappresenta il 50% del nostro fatturato (che in totale ammonta a 50 milioni nel 2015 ndr) e il 70% della produzione la esportiamo proprio in quei mercati».
Vignola sta vivendo lo stesso problema di tutti i produttori agricoli che hanno puntato sul biologico. La domanda è cresciuta ma manca il prodotto. «Non si riesce più a fare fronte alle richiesta. Sempre più consumatori anche in Italia richiedono prodotti alimentari Bio ma non se ne produce abbastanza».
Sembra un paradosso, ma la grande spinta al biologico l’ha data proprio il mondo meno bucolico dell’industria. Barrette energetiche, sostituti di pasto, preparati, precotti, un mondo di consumo veloce e pratico, per nulla slow, che chiede, però, una sicurezza alimentare totale e rispetto per l’ambiente.
«Fino a poco tempo fa acquistavamo il riso biologico esclusivamente da altri risicoltori. Ma da un paio di anni abbiamo deciso di produrlo anche noi, nelle nostre sei tenute agricole collegate alla riseria».
La scelta è partita da un’attenta osservazione di un mercato che Vignola, ormai, conosce bene. «Il consumatore di biologico è il più difficile che ci sia. È attentissimo ed è preparato. Sceglie con cura quello che mangia e guai a tradirlo. Se un produttore, magari spinto dalla mancanza di prodotto biologico, allega certificazioni false commette un errore mortale per sé, e dannosissimo per l’intero sistema. Nel bio, la prima cosa a cui bisogna stare attenti è non finire sui giornali per una truffa alimentare. Basta uno scandalo e il consumatore non si fida più. Quindi, da una parte avevamo la necessità di aumentare la produzione di riso bio e dall’altra dovevamo trovare una via più sicura per garantirci dalle truffe».
Così è arrivata l’intuizione della pacciamatura. «Abbiamo trattato con un’importante azienda che produce teli da pacciamatura per le colture tradizionali. Dovevamo avere un telo che fosse completamente biodegradabile e compostabile in acqua nel giro di un paio di mesi. Così loro hanno avviato una sperimentazione sui nostri terreni e noi abbiamo iniziato a confrontarci con questa tecnica totalmente nuova per la risaia».
Oggi, su 1400 ettari coltivati, 300 sono bio. E, al raccolto di settembre, al termine del secondo anno di sperimentazione, ci sarà il primo vero verdetto in termini di resa. «I vantaggi che stiamo osservando sono diversi. Intanto, non c’è una perdita di raccolto, anche se la risaia pacciamata. Allo sguardo mostra meno piantine. In realtà, le piantine sono molto più forti e producono più pannocchie. Inoltre, le stesse pannocchie sono più lunghe: insomma meno piante ma più chicchi per pianta, e, alla fine, stesso raccolto. In più, da quello che osserviamo, la pianta non più sottoposta allo stress da asciutta per diserbo cresce in modo uniforme ed è quindi più forte e resistente anche agli attacchi fungini. Per lo stessi motivi, ci aspettiamo anche che il riso, alla fine venga anche più buono».
Ma il vero vantaggio è che, chiunque, anche un profano, si può rendere conto, al primo sguardo, che le erbacce non possono crescere e che, quindi, non c’è bisogno di spruzzare diserbanti. Insomma, è una coltivazione, che oltre alle tradizionali certificazioni e analisi sulle tracce di residui chimici, offre subito la possibilità di essere “ispezionata” da chiunque; volendo, anche dai consumatori stessi.
«Funziona così. Ad aprile stendiamo i teli con le macchine per la pacciamatura. Si applicano a file con interfile di 35 centimetri. Sulle file la macchina produce già i buchi per la semina. Nella pacciamatura tradizionale, nei buchi dei teli vengono trapiantate le piantine di ortaggio. Noi abbiamo scelto di non avere una risaia-vivaio che produca piantine perché sarebbe stato difficile garantire un sistema bio dalla semina a trapianto. Così abbiamo scelto di seminare nei buchi, in asciutta, senza mettere ancora l’acqua, una semina che deve avvenire a mano. Dopo la crescita delle piante, sulle file quasi non ci sono erbacce. Le erbacce che, invece, sono cresciute, nelle interfile, vengono tagliate a con decespugliatore. A quel punto, dopo circa due mesi, si fa entrare l’acqua in risaia. I teli in “plastiche” di mais, si decompongono e vanno a concimare il terreno, il riso cresce e, quando si tratterà di iniziare la mietitura i teli si saranno completamente decomposti in campo».
Alla chimica, quindi, si sostituisce la manodopera. Anche qui non bisogna finire sui giornali, il consumatore bio non gradisce che i suoi soldi servano a sfruttare braccianti per sostituire i diserbanti. «Per ora, non si può fare a meno della semina a mano e del taglio manuale delle erbacce. Per questo, lavorano da noi 52 giovani provenienti da due località della Romania. Sono ragazzi abituati a fare i braccianti; in Romania sono pagati una miseria. Noi li abbiamo assunti regolarmente e offrendogli alloggio in una delle nostre cascine, dove abbiamo ristrutturato, per questo scopo, i vecchi alloggi degli operai agricoli».
Ma l’obiettivo è estendere la meccanizzazione a tutto il processo. «Il problema è ancora tecnologico. Con un’azienda di macchinari agricoli stiamo progettando una macchina in grado di tagliare l’erba passando tra le file. Oggi, se facciamo passare un trattore sulla pacciamatura distruggiamo tutto il lavoro. Un’altra frontiera è rappresentata da un nuovo prodotto diserbante, certificabile bio, che non è ancora sul mercato».
E i costi per l’azienda agricola? «A conti fatti non c’è perdita di profitto. Se da una parte, abbiamo un significativo costo di manodopera e, in futuro, dovremo pagare anche i teli, dall’altra, nel bio abbiamo l’azzeramento dei costi per i diserbanti e soprattutto una maggiore quotazione del riso sul mercato. Quello che perdiamo lo recuperiamo nella vendita del prodotto, e mettiamo le basi per stare dentro un mercato che diventerà sempre più ampio ma anche più rigoroso».
Insomma, siamo ancora in fase sperimentale, ma si sta per vedere la luce in fondo al tunnel. «Come ho detto, noi non torniamo indietro. Appena avremo a disposizione le nuove macchine le adotteremo per ridurre i costi di manodopera, ma il passo successivo sarà di insegnare questo metodo anche ai nostri fornitori. Sarà inevitabile, chi vorrà conferire il suo riso alla nostra riseria dovrà coltivarlo così. Non ci accontenteremo più di vedere un semplice certificato».