Le mani della mafia sul cibo, affare da 14 miliardi
Dalle mozzarelle ai terreni agricoli, dai ristoranti all’ autotrasporto, il business dell’agromafia fattura in Italia circa 14 miliardi di euro. E’ quanto afferma la Coldiretti nel commentare l’operazione anticamorra nel basso Lazio che ha coinvolto anche Antonella D’Agostino, moglie di Renato Vallanzasca, che avrebbe avuto un ruolo di intermediazione in un’operazione di acquisizione di un hotel a Mondragone e in alcune vicende usuraie ed un progetto per vendere mozzarelle a Milano.
Le associazioni criminali trovano terreno fertile nel tessuto economico indebolito dalla recessione secondo il rapporto Coldiretti/Eurispes del 2013. L’agricoltura e l’alimentare sono considerate aree prioritarie di investimento dalla malavita che ne comprende la strategicità in tempo di crisi perché del cibo, anche in tempi di difficoltà, nessuno potrà fare a meno, ma soprattutto perché consente di infiltrarsi in modo capillare la società civile e condizionare la via quotidiana della persone in termini economici e salutistici. Per questo le mafie – sottolinea Coldiretti – hanno già imposto il proprio controllo sulla produzione e la distribuzione di generi alimentari del tutto eterogenei tra loro. Controllano in molti territori la distribuzione e talvolta anche la produzione del latte, della carne, della mozzarella, del caffè, dello zucchero, dell’acqua minerale, della farina, del pane clandestino, del burro e, soprattutto, della frutta e della verdura.
Potendo contare costantemente su una larghissima ed immediata disponibilità di capitale e sulla possibilità di condizionare parte degli organi preposti alle autorizzazioni ed ai controlli, si muovono con maggiore facilità rispetto all’imprenditoria legale. Con i classici strumenti dell’estorsione e dell’intimidazione impongono la vendita di determinate marche e determinati prodotti agli esercizi commerciali, che a volte, approfittando della crisi economica, arrivano a rilevare direttamente.
Alcune stime – precisa Coldiretti – valutano almeno 5.000 locali di ristorazione in Italia in mano alla criminalità organizzata (bar, ristoranti, pizzerie), nella maggioranza dei casi intestati a prestanome. Questi esercizi non garantiscono solo profitti diretti, ma vengono utilizzati anche come copertura per riciclare denaro sporco.
In alcuni casi agenti dei clan rappresentano specifici marchi alimentari, che impongono in tutta la loro zona di influenza. Per raggiungere l’obiettivo i clan ricorrono a tutte le tipologie di reato tradizionali: usura, racket estorsivo, furti di attrezzature e mezzi agricoli, abigeato, macellazioni clandestine, danneggiamento delle colture, contraffazione e agropirateria, abusivismo edilizio, saccheggio del patrimonio boschivo, caporalato, truffe ai danni dell’Unione europea. Quasi un immobile su quattro confiscati alla criminalità organizzata è terreno agricolo a dimostrazione della strategia di accaparramento delle campagne messa in atto dalla criminalità organizzata.
Su 12.181 beni immobili confiscati alla criminalità organizzata, oltre il 23 per cento (2.919) sono rappresentati da terreni agricoli. Ma le mani della Mafia Spa si allungano lungo tutta la filiera e, su un totale di 1.674 aziende confiscate, ben 89 (5,3 per cento) operano nei settori “Agricoltura, caccia e silvicoltura” e 15 (l’1 per cento circa) nei settori “Pesca, piscicoltura e servizi connessi”, 173 (10 per cento) nella ristorazione ed alloggio e 471 (28 per cento) nel commercio all’ingrosso e al dettaglio, anche nell’agroalimentare.
Le organizzazioni mafiose sono consapevoli che, pur non trattandosi del settore che garantisce i guadagni più consistenti e nel più breve tempo, il cibo costituisce la necessità primaria, di cui nessuno potrà mai fare a meno. Mettendo le mani sul comparto alimentare le mafie hanno inoltre la possibilità di affermare il proprio controllo sul territorio. Non solo si appropriano di vasti comparti dell’agroalimentare e dei guadagni che ne derivano, distruggendo la concorrenza ed il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta, ma – conclude la Coldiretti – compromettono in modo gravissimo la qualità e la sicurezza dei prodotti, con l’effetto indiretto di minare profondamente l’immagine dei prodotti italiani ed il valore del marchio Made in Italy.