Le incognite delle nuove etichette europee
La nuova etichettatura alimentare europea rischia di creare una sacco di problemi per i prodotti italiani di qualità.
Non per nulla la norma nazionale sta già provando a venire incontro alle nostre eccellenze evitando i danni di un influenza anglosassone in un campo in cui non dovremmo andare a lezione da nessuno.
Un esempio riguarda l’etichettatura facoltativa in particolare per prodotti come la carne (che resta comunque il prodotto più tutelato). Con l’etichettatura europea rischiavano di sparire marchi prestigiosi che hanno fatto l’eccellenza del made in Italy come il marchio Coalvi, il marchio Asprocarne e atri 160 marchi che negli anni hanno basato il proprio prestigio su rigorosi disciplinari. Il governo ha annunciato che colmerà il buco proponendo comunque un norma nazionale che permetta il mantenimento dell’etichettatura facoltativa che indica la razza della carne rimandando ai controlli di qualità esercitati proprio da queste associazioni di marchio.
«I Paesi del Nord Europa vorrebbero fare vincere quella parte dell’industria della carne che vorrebbe tornare a una tracciabilità irrisoria, come si faceva prima di Mucca Pazza», dicono in proposito alla Coalvi.
Un altro aspetto importante riguarda l’abolizione dell’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione di un prodotto alimentare confezionato. In pratica si vorrebbe eliminare la tracciabilità completa, rendendo meno evidente l’origine prima del prodotto. Questa indicazione, che per noi italiani è ormai un’abitudine, viene sostituita da quella del “responsabile” della sicurezza del prodotto, cioè da un generico Operatore del Settore Alimentare che dovrebbe coincidere con l’azienda che per ultima lo ha confezionato, che in questo modo si fa carico della sicurezza di tutta la filiera.
Anche in questo caso, si tratta di una concezione tipica di Paesi dove c’è una scarsa varietà di razze animali e di vegetali e una conseguente scarsità di preparati alimentari tipici. Nel Nord Europa vince quindi l’esigenza dell’industria rispetto alla cultura delle varietà gastronomiche legate alla biodiversità agricola. Aspetti che invece noi italiani, insieme ai francesi, ricerchiamo con sempre maggiore consapevolezza.
Anche qui, la norma nazionale sopperisce esaltando le indicazioni di origine già presenti con i vari Igp, Doc, Docg, etc. Ma si tratta di un altro esempio di come la cultura alimentare più “industriale” proveniente dal Nord e Centro Europa vada contrastata dai Paesi con una maggiore cultura gastronomica legata al territorio.
Ad onor del vero, però, si deve anche dire che la nuova etichettatura europea dovrebbe chiudere almeno la stagione dell’italian sounding cioè dei nomi italiani con tanto di bandiera tricolore apposti a prodotti tedeschi, inglesi, olandesi etc.
Resta invece ferma l’indicazione del termine minimo di scadenza, cioè quella data entro la quale un prodotto mantiene le sue piene caratteristiche ma che non vuol dire che faccia male se consumato dopo.
Infatti, in Europa c’è chi vorrebbe abolire il cosiddetto “Termine minimo di conservazione”, noto sulle etichette con la raccomandazione “Da consumarsi preferibilmente entro”. La spinta arriva da quella parte dell’opinione pubblica che chiede iniziative concrete contro gli sprechi alimentari. Molta gente butta via un prodotto quando potrebbe ancora essere tranquillamente mangiato.
Per ora, questa proposta non è contenuta nella nuova etichettatura europea.
Un altro aspetto riguarda i ristoranti. Non è del tutto chiaro se i potenziali allergeni dovranno essere indicati solo su appositi cartelli del tipo “nella nostra cucina si fa uso di crostacei, frutta a guscio, sedano etc.” oppure se ciascun piatto sul menù dovrà riportare la segnalazione dei potenziali allergeni.
Qui il rischio è che una tranquilla e rilassante cenetta si trasformi in un concentrato di inutili angosce. Altro modo di approcciarsi al cibo che, anche se le allergie alimentari sono in aumento anche da noi, non appartiene alla nostra cultura.