La tinca, il pesce da carpione che aspetta l’alta cucina
Allevare tinche non è poi così difficile. Nel cuore del Piemonte ci riescono da sempre. Tra le province di Torino e Cuneo, a Poirino e nei comuni del Pianalto, la pianura rialzata, argillosa, che si estende dalla pianura del Po fino al Roero, l’allevamento della tinca si tramanda da secoli. Nel Settecento è addirittura documentata la presenza di 8 famiglie che allevavano tinche come occupazione principale.
Questa è la zona delle “peschiere”, stagni ricavati nell’argilla che veniva cavata per fare mattoni, dove l’acqua è soltanto piovana. Nei 24 comuni del Pianalto, dove è compreso il territorio della Dop Tinca gobba dorata del Pianalto di Poirino, sono state censiti 400 stagni artificiali di cui un centinaio ancora adibiti a peschiere. In queste buche, di piccole ma anche di grandi estensioni, sempre poco profonde (uno-due metri, ma alcune arrivano anche a quattro metri), venivano portate le mucche ad abbeverare e venivano “seminati” gli avannotti di tinca. I pesciolini ancora oggi arrivano da peschiere che fanno schiudere milioni di uova prodotti dalle tinche nel tardo mese di maggio, quando questo ciprinide va in frega.
Gli avannotti, immessi nelle peschiere, nei mesi estivi diventano rapidamente tinchette di 10-12 cm. Non vengono alimentate a mangime ma a pane secco avanzato, sminuzzato e impastato. Quando superano questa fase, alle tinche viene dato il mais.
Perché proprio la tinca?
I “pesci da cascina”, cioè i pesci che, tradizionalmente, venivano allevati, dietro le fattorie padane in stagni ad uso familiare, appartengono tutti a specie che resistono a condizioni di scarsità di ossigeno e di innalzamento della temperatura dell’acqua nei mesi estivi. La scelta è sempre stata ristretta alla carpa, al pesce gatto, alla costosa anguilla (costosa e difficile da comprare allo stadio di anguillina) e, appunto, alla tinca. Se tra queste specie è la carpa a garantire la massima resa in carne (può arrivare in stagno a una dozzina di Kg) per una lunga conservazione in carpione si adatta meglio un pesce più sottile e meno grasso. Soprattutto la tinca è onnivora: mangia di notte e preda larve di zanzara e di moscerini (i chironomidi che stanno nel fango), mangia lumachine da acqua stagnante che spesso invadono gli stagni e sanguisughe o planarie. Li scova tutti con i due barbigli, organi di senso fenomenali con cui setaccia il fondo. Ma si nutre anche di semi, erbe acquatiche e ogni altro vegetale ad alto contenuto glucidico e proteico che trova.
Questo pesce, dunque, può essere allevato con avanzi alimentari umani.
In inverno e quando lo stagno ha l’acqua calda le tinche entrano in una sorta di letargia e smettono di alimentarsi e di crescere.
Si pescano con un grosso guadino a strascico, tra maggio e ottobre. Anzi, un tempo, venivano pescate in autunno per friggerle e conservarle in carpione fino all’inizio dell’inverno in recipienti di terracotta.
Ad essere pescati, o, potremmo dire, raccolti, sono i pesci di due anni. Nella tradizione del Pianalto di Poirino le tinche preparate rigorosamente in carpione, devono essere di piccola taglia sui 100-200 grammi al massimo per 18 cm di lunghezza.
Qui, le tinche non hanno il consueto “gusto di fango”, sembra per via del fondo argilloso e dell’acqua dura delle peschiere che impedisce ai cianobatteri di proliferare e dare gusto al muscolo del pesce. Come detto, si fa in carpione ma sono in corso di sperimentazione anche il filetto affumicato (con pesci un po’ più grandi) e il patè di muscolo da spalmare su tartine.
Agli inizi del 2000 si è assistito alla rinascita della tinca. Si fece leva sulla riscoperta di questo prodotto per allontanare lo spettro di una discarica per rifiuti urbani. Nacque l’associazione dei produttori con una trentina di iscritti. La tinca gobba dorata divenne un presidio Slow Food e un prodotto del Paniere dei prodotti tipici della Provincia di Torino. Infine, con l’appoggio del governo, e dopo sette anni di iter, nel 2008, è arrivata anche la Denominazione di origine protetta, primo pesce di acqua dolce ad ottenere il riconoscimento (dopo è arrivata una carpa della Repubblica Ceca. Poi è arrivata la promozione al Salone del Gusto di Torino e a Slow Fish a Genova.
Oggi c’è bisogno di una nuova spinta. Il prodotto viene ancora consumato quasi del tutto in zona e non finisce nelle gastronomie e nei ristoranti di Torino e Milano come potrebbe, viste le potenzialità di questo pesce povero ma tutto da riscoprire. Il prezzo di vendita si aggira sui 15 euro al Kg, niente male. Solo che la produzione arriva appena al centinaio di quintali.
La tinca gobba dorata del Pianalto di Poirino potrebbe entrare anche nelle logiche della blue economy. A maggio 2017 si è tenuto un convegno proprio a Poirino sulla spinta della sindaca Angelita Mollo e della sua vice, Mariangela Marocco. Nel corso del convegno, questa prospettiva è stava evocata soprattutto dalla vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte, Daniela Ruffino. «I prodotti locali del Pianalto, ad iniziare proprio dalla tinca – ha affermato – devono fare sistema, secondo le regole della Blue Economy, con la duplice valenza della materia non utilizzata che dà l’avvio ad un altro sistema produttivo. Il punto di forza da cui iniziare questo percorso è la conquista della denominazione IGP del Pianalto, progetto importante che determinerà un futuro diverso di sviluppo con partner interessanti come il Politecnico, le istituzioni locali, l’Istituto Zooprofilattico, le realtà produttive locali».
Un pesce che interessa all’alta cucina
La tinca è forse il pesce d’acqua dolce che più aspetta il suo grande rilancio. Pesce popolare dimenticato, che oggi potrebbe rientrare dalla porta principale addirittura nei piatti dell’alta cucina.
Se ne sta occupando lo chef stellato Ugo Alciati, che si è inventato un nuovo piatto che valorizza questo pesce, presentato alla 60esima fiera della tinca di Poirino e ora da proporre nel suo ristorante Guido nella tenuta Fontanafredda a Serralunga d’Alba (CN).
Alciati propone le piccole tinche in filetti senza lische. Proprio le lische sono il punto debole di questo pesce che cresce fino a raggiungere i 50 cm e il chilo e mezzo di peso ma che la tradizione vuole consumato una volta raggiunto un etto-etto e mezzo per 18-20 centimetri.
Sfilettarla è quindi il modo migliore di proporre la tinca. Alciati, in più, la posa su tre creme, tra cui quella delicatissima agli asparagi.
Ma la tradizione vorrebbe questo pesce di fiume, lago e stagno messo in padella tutto intero.
Già perché la tinca è uno dei pesci più dimenticati della nostra storia culinaria.
Fino agli anni ’60 era comune trovare le tinche in carpione tra gli antipasti sulle tavole delle feste dei piemontesi. Ma era un pesce molto consumato anche in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
La sua lunga fortuna è stata legata al fatto che può vivere anche in acqua stagnante
La tinca può vivere in acqua con poco ossigeno disciolto che raggiunge anche alte temperature estive. Per quest,o molte cascine della Pianura Padana avevano un piccolo stagno dove i contadini stabulavano le tinche, qualche carpa e i pesci gatto.
La tinca, insieme alla carpa, era anche allevata nelle risaie fino agli anni ’70, quando l’acqua per termoregolare il riso raggiungeva anche i 40 cm di altezza. Le tinchette venivano “seminate” al trapianto del riso per essere “raccolte” una volta raggiunti i 20 cm, a settembre, con l’asciutta delle risaie e lo sfalcio del riso.
La tinca era anche molto pescata nei grandi fiumi del Nord Italia e soprattutto nei grandi laghi. La tradizione veneta e lombarda (in particolare del lago di Garda) del risotto alla tinca, deriva proprio dalla disponibilità di questo pesce portato ai mercati dai pescatori di professione.
Sempre la tradizione, vuole che questo pesce sia fritto e poi conservato con la straordinaria tecnica del carpione.
Il carpione serve, innanzitutto, per conservare il più a lungo possibile il pesce cotto (e non solo il pesce), ma è anche il metodo di trasformazione più efficace per annullare il “gusto di fango” che è l’altro grande limite della tinca in cucina; un problema che questo ciprinide condivide anche con la sua cugina carpa, il pesce gatto e, soprattutto con l’anguilla, tutti pesci che bazzicano nel fondo cercando il cibo tra le alghe e il fango e che vivono in acque poco correnti o addirittura stagnanti.
Ma, contrariamente a quanto si pensa, gusto di fango di questi pesci di acqua dolce non è dovuto al fatto che si alimentano “nel fango” o vivono “sul fango”. È l’acqua stagnante o a debole corrente ad essere l’habitat adatto alla proliferazione estiva dei cianobatteri, la alghe verdi-blu, una famiglia molto numerosa che comprende specie unicellulari che fluttuano nell’acqua formando poi i filamenti verdi caratteristici dell’acqua a scarso ricambio.
I cianobatteri producono la geosmina, un composto che finisce per fissarsi al muscolo dei pesci che, con la respirazione, filtrano continuamente l’acqua in cui vivono. Respirando acqua ricca di cianobatteri i pesci assumono il gusto di fango della geosmina. Se i pesci vengono messi a respirare in acqua corrente e ben ossigenata, il gusto di fango viene attutito grazie all’eliminazione metabolica dei composti responsabili del gusto sgradevole.
Ma quando il pesce viene pescato e ucciso, occorre trovare altre strade per renderlo gradevole. E, visto che la geosmina viene decomposta da prodotti acidi come l’aceto, ecco che il carpione è la soluzione gastronomica migliore.
Così le “tinche in carpione” hanno finito per entrare nelle cucine povere e restarci per secoli fino a diventare un piatto obbligatorio nella sterminata schiera degli antipasti piemontesi. Il pesce in carpione ha finito poi per identificarsi con la “trota in carpione” ma fino agli anni ’70 non c’era gastronomia rinomata a Torino che non vendesse anche le tinche, oltre alle trote, naturalmente, in carpione.
Il procedimento del carpione prevede che il pesce, freschissimo, venga eviscerato e fritto in un’indoratura di farina (perfetta la farina di riso). I pesci fritti vengono fatti asciugare mentre, a parte, sta sobbollendo una padella alta piena di olio, acqua, vino rosso o bianco, più poco o tanto aceto e una miriade di ortaggi ed erbe. Il mix di brodo di cottura dal forte odore acido che immancabilmente invade tutta la cucina, con tutte le verdure cotte viene unito ai pesci fritti e lasciato raffreddare.
Ciascuna famiglia aveva la sua ricetta di carpione. La più classica tra le tantissime ricette piemontesi prevede che siano messe a sobbollire: molta salvia (antibatterico e conservante), cipolla, sedano, aglio (altro antibatterico), ed eventualmente, rosmarino, timo, alloro, carota.
Dopo poche ore al fresco, il brodo acido estrare collagene dal muscolo del pesce cotto e si mischia al poco glutine generato dal contatto farina-acqua. Si forma così una gelatina dallo straordinario potere conservante.
Di solito, viene messo in una terrina riposta in frigo, ma fino a pochi decenni fa veniva composto un contenitore di terracotta a strati di pesce e brodo-ortaggi cotti; il contenitore veniva poi sigillato e stoccato in cantina temperatura costante di 4-6 gradi. In questo modo, le tinche in carpione, preparate in autunno, si conservavano anche fino a Natale.
Un pesce facile da allevare e dalla grande resa. Un pesce che aspetta di essere reinventato in cucina, ha solo bisogno di incontrare mani sapienti e tanta passione per le nostre ricchezze gastronomiche dimenticate.
Ottima ricetta! Ricorda tanto la cottura che facevo per mio Nonno ( Trino Vercellese ) che la gustava con molta soddisfazione . Credo proprio che la ripeterò
BELLO RICORDARE VITA SINCERA DI QUEI TEMPI SPERO CHE I GIOVANI VADANO ALLA RICERCA PER CONOSCERE
bello e piacevole i tempi miei quando le persone si salutavano .