La cucina nel Risorgimento vista con gli occhi delle donne
Tra i divi dei fornelli, tra i divi della padella, difficilmente si vede una donna. Nell’alta cucina, anche in quella dello star sistem televisivo, non c’è spazio per le donne. Un vuoto che arriva da lontano e che è stato indagato da Bruna Bertolo, giornalista e scrittrice rivolese, specializzata in saggistica storica degli ultimi due secoli.
Il suo libro, “Donne e cucina nel Risorgimento; aneddoti e ricette popolari, borghesi, reali dell’800” edito per Susalibri, è una ricerca nell’universo gastronomico risorgimentale dove, mentre si combatteva per fare l’Italia, si chiudevano le porte della cucina che conta alle cuoche.
“Come in tutti i settori considerati di grande importanza sociale ad economica – ci ha spiegato Bruna Bertolo – il ruolo della donna nell’alta cucina era del tutto irrilevante. Non c’è praticamente traccia di cuoche di corte e di cuoche a servizio della nobiltà, sia nel Mezzogiorno che al Nord, Torino compresa. L’unica eccezione, in un certo senso, è rappresentata dalle suore. Con la soppressione dei conventi da parte di Napoleone molte suore vengono accolte dalla nobiltà. A Napoli, queste suore divulgano così le ricette originarie dei dolci napoletani”.
La donna, moglie, figlia e sorella cucina nelle famiglie. Ma solo in quelle povere, dove, alla cura dei figli e al lavoro nei campi e nelle filande deve aggiungere anche la preparazione dei pasti. In questo modo tramanda di madre in figlia le ricette. Ma dove il cibo è manifestazione del potere non sono le donne ad occuparsene.
“Il cibo è sempre importante e il pasto è sempre un momento fondamentale della giornata. Ma per le corti e per le case nobiliari pranzi e cene avevano un funzione sociale decisiva. Perché era anche a tavola che si manifestavano rango e alleanze. Il cibo assumeva così un’importanza enorme. E in una società che non dava importanza alle donne non poteva che essere un uomo ad occuparsi delle ricette per il re, la regina e i loro ospiti”.
Le ricette, quelle scritte e codificate, nascono proprio da questi cuochi maschi che dirigevano cucine enormi che decine di uomini e donne tutti al loro posto come in una fabbrica. “Anche qui, come avrebbe potuto una donna, che il più delle volta non sapeva nemmeno leggere e scrivere, leggere ed eseguire una ricetta dello chef? La donna non aveva mezzi per avvicinarsi alle ricette. Così i primi ricettari sono scritti da uomini”.
Chissà se quei piatti, solo in parte tramandati fino a noi, sarebbero stati diversi se creati da una mano femminile. Chissà se la cucina esuberante dell’aristocrazia piena di grassi e zuccheri, con i grandi secondi di carne a base di selvaggina, sarebbe stata più pratica, meno elaborata, più semplice e colorata, se le ricette le avessero scritte le donne. “Le donne in cucina erano semplici aiutanti; al massimo venivano impiegate per lavorazioni seriali dove serviva una buona dose di pazienza, come nella preparazione di gelatine (molto utilizzate nell’800) e di confetture. Lo stesso avveniva nella nascente industria alimentare, in particolare nella liquoristica”.
Così, quando Pellegrino Artusi, a fine secolo, tira per primo le somme dei tanti ricettari regionali italiani nel primo grande libro di cucina nazionale, le ricette raccolte sono quelle scritte e dunque quelle passate di cuoco maschio in cuoco maschio, di appunto in appunto. E sono questa ad entrare nella cucina italiana ufficiale e nelle cucine regionali che fino a noi hanno distinto le tante tradizioni locali italiane.
La donna se sta in cucina, ed elabora con grande capacità materie prime poverissime in un’economia di pura sussistenza. Vengono fuori moltissimi piatti tradizionali, ma, senza saper scrivere, non tramanda i suoi saperi. E pensare che molte di quelle ricette sono dei veri e propri inni contro lo spreco, da riscoprire in tempi di crisi. “Nella cucina povera dell’800 c’è una grande ricerca del risparmio e del riuso. Si riutilizzano più volte il brodo, si ricicla il pane secco. E persino i gusci e le code dei gamberi di fiume già consumati vengono riutilizzati”.
Ma se nelle famiglie povere la donna cucinava senza clamore, nell’aristocrazia, le donne, che in cucina non mettono praticamente piede, spesso sono protagoniste della nascita di nuovi piatti o di nuovi prodotti. È il caso della duchessa di Parma Maria Luigia che corregge le ricette del suo cuoco-amante. O come Giulia Colbert Falletti, marchesa di Barolo, a cui è attribuita la nascita del re dei vini piemontesi. O come la regina Margherita che apprezzando la pizza del pizzaiolo napoletano Esposito darà indirettamente il suo nome a una celebre pizza.
E poi, visto che siamo nel Risorgimento, non potevano mancare le eroine. Quelle del cibo sono le tante vivandiere che sulle barricate e nei campi di battaglia portano ai soldati e patrioti il rancio che cucinano nelle retrovie.
Donne e cibo, sempre dietro le quinte. Un po’ come oggi, dove la mamma prepara un raffinato ragù ma in televisione la star dei sughi è sempre un uomo.