Il vero problema sono i pomodori campani cinesi
Dopo la campagna furbetta di Pomì si scopre che buona parte dei pomodori da polpa arriva comunque dal Nord. Come era già successo per la gaffe sui gay di Barilla, anche sulla Terra dei fuochi c’è chi ha preso subito la palla al balzo per trarre vantaggio dalla difficoltà d’immagine di un concorrente, in questo caso dell’agricoltura campana. Si è così scatenata una guerra da Nord a Sud sul pelato e sulla passata. Con un twitt, il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro ha risposto a Pomì: “pomodori al Nord solo marketing, il sapore dei nostri è un’altra cosa”. Il presidente, ha difeso i pomodori campani affermando che sono “migliori e controllati”.
Ma se il 34 per cento del pomodoro italiano da industria viene coltivato in Emilia Romagna, il 35 per cento in Puglia appena il 5 per cento in Campania dove peraltro ci sono due pomodori come il San Marzano e il Pomodorino del Piennolo del Vesuvio che si possono fregiare del marchio europeo Dop (denominazione di origine protetta) che assicura un livello aggiuntivi di controllo e di garanzia qualitativa sulla base di specifici disciplinari di produzione.
Semmai, il problema è un altro. La Campania ha da tempo dimenticato la sua tradizione di “filiera corta”, che nei decenni ha permesso la nascita di una fiorente industria della trasformazione del pomodoro, per scegliere quella (furbetta anche lei), della trasformazione del prodotto cinese. Così l’anonimo pomodoro cinese si nobilita passando dagli stabilimenti campani. Vale la pena ricordare che secondo Coldiretti/Eurispes nella provincia di Salerno arriva il 98 per cento del concentrato di pomodoro cinese importato per essere rilavorato nelle industrie campane.
Sui controlli, poi, l’Italia ha sempre il primato. Anche se non è detto, per questo che il prodotto campano sia, per definizione, sicuro. Il cento per cento dei pomodori italiani trasformati, dalla passata di pomodoro alla polpa di pomodoro, dai pomodori pelati ai pomodori secchi, sono risultati regolari per la presenza di residui chimici sulla base delle ultime analisi del Ministero della Salute pubblicate nel rapporto “controllo ufficiale sui residui di prodotti fitosanitari”. L’Italia ha conquistato il primato in Europa e nel mondo della sicurezza alimentare con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite (0,3 per cento) che sono risultati peraltro inferiori di cinque volte a quelli della media europea (1,5 per cento di irregolarità) e addirittura di 26 volte a quelli extracomunitari (7,9 per cento di irregolarità). “Un risultato – sottolinea Coldiretti – che occorre però sostenere rendendo obbligatoria l’indicazione della provenienza in etichetta. Attualmente in Italia l’obbligo di indicare la provenienza è in vigore per carne bovina (dopo l’emergenza mucca pazza), pollo (dopo l’emergenza aviaria), ortofrutta fresca, uova, miele, latte fresco, passata di pomodoro, extravergine di oliva, ma ancora molto resta da fare e l’etichetta è anonima per circa la metà della spesa dalla pasta ai succhi di frutta, dal latte a lunga conservazione ai formaggi, dalla carne di maiale ai salumi fino al concentrato di pomodoro e ai sughi pronti”.