“Il cibo è un grande campo di innovazione”
Cibo e innovazione. Concepire quel che mangiamo come un ambito dove si fa ricerca e sviluppo utilizzando a piene mani tecnologia e scienza. Fare innovazione in un campo così legato all’immagine della tradizione come è quello del cibo italiano può sembrare un paradosso. Ma è invece la nuova sfida del settore che è quello trainante del Made in Italy.
Simonetta Pattuglia, professore aggregato di Marketing, Comunicazione e Media, Direttore del Master in Economia e Gestione della Comunicazione e dei Media dell’Università di Roma Tor Vergata dedica proprio all’innovazione il seminario Food Wine & Co che si tiene dal 23 al 25 novembre a Roma.
Cosa vuol dire fare innovazione in un settore, come quello dell’agroalimentare, dove il filo conduttore è il gusto, cioè qualcosa che abbiamo appreso e che, in qualche modo, ci condiziona per tutta la vita?
«Oggi in tutti i settori merceologici (a maggior ragione in quelli collegati al gusto e all’evoluzione anche “intima” dei consumatori che, non dimentichiamolo, sono persone) l’innovazione è precondizione di adeguamento al veloce cambiamento e alla possibilità di perdurare sul mercato per progetti, iniziative, imprese. Il settore agro-alimentare ed eno-gastronomico non fa eccezione: prodotti, processi, luoghi e territori stanno tutti vivendo una fase di grande riscoperta soprattutto in Italia dove troppo a lungo la “questione” agricola ed agroalimentare è stata vissuta come mero retaggio del passato e completamente sganciata dai grandi flussi che riguardavano il turismo, i beni culturali, i grandi eventi e la comunicazione».
Viviamo in un’epoca in cui “innovare” è un must culturale, prima ancora che una necessità dell’economia reale. Ma il cibo viene sempre più venduto sottolineando il legami con la tradizione. Il legame cibo-tradizione è uno dei più efficaci nella comunicazione del cibo italiano all’estero. In Italia gli autogrill vengono prodotti in ambienti che ricordano i mercati e le fiere di paese. Allora, come si fa, nel marketing, a conciliare un’immagine legata alla tradizione con nuovi gusti, nuovi modi di processare, presentare, sanificare, il cibo?
«Proprio nel marketing, oggi, e nella conseguente comunicazione, l’heritage ossia la sottolineatura della longevità e della tradizione nella costruzione del valore di prodotti, imprese e marche, si unisce alla profonda necessità di innovare e di porgere ai consumatori prodotti nuovi e diversi, spesso addirittura nella riscoperta della loro tradizionalità e nella loro naturalezza. Una futura e possibile nutrizione responsabile, fuori dai multibuy e dai superzise tipici delle promozioni quantitative che a poco costo conducono solo all’obesità, porta alla necessità di innovare processi e prodotti così come la stessa cultura dell’alimentazione che è alla base dei prodotti. La tradizionalità e il valore attribuito a tipicità, caratteristiche del modo italiano di fare impresa agricola e mercato, prodotti e cura del cliente, sono da riscoprire. Anche se in un’ottica di esaltazione (e non di mortificazione) delle nostre produzioni e del nostro stile».
Su cosa lavorate nel Master e qual è l’obiettivo del Seminario Food, Wine & Co dedicato alla Food Innovation?
«Dopo varie edizioni dedicate al marketing e alla comunicazione alimentare ed enogastronomica, agli eventi e alla cultura enogastronomica, alle arti maggiori e minori, dal cinema al cake design, in grado di evidenziarla ed esaltarla, al marketing territoriale, proprio i temi e le riflessioni dedicate alla creazione di valore nel settore agricolo, alimentare ed enogastronomico, ci hanno portato a voler “setacciare” l’innovazione laddove la si individuasse in prodotti, settori industriali, attività di marketing e comunicazione, eventi e creazione di brand in Italia. Un meta-obiettivo è stato decisamente quello di continuare a focalizzare i temi del nostro migliore e più tradizionale made in Italy troppo a lungo considerato di seconda categoria o tipico di un’Italia passata e superata. Si tratta invece di un’Italia dalla “grande impronta” culturale e di mercato».
In questi sei anni di Food & Wine come avete visto evolvere il mondo del food?
«In questi anni abbiamo percepito e letto nei segni del mercato e della società molta evoluzione: quando cominciammo nel 2012 (dopo una gestazione di almeno un anno di idee, spunti, riflessioni, studi, letture e ricerche) il food era “strumentalizzato”, mero oggetto di spettacolarizzazione televisiva un po’ vuota e spesso fine a se stessa, mero spazio di product placement. Spettacolizzazione, che è comunque servita a far riscoprire un mondo che esisteva ma che non veniva sufficientemente valorizzato. Poi siamo passati a una fase di “food riscoperto” in cui si andavano a rintracciare origini, possibilità, valori e prospettive del cibo e della cucina italiana, ma ancora in una prospettiva un po’ statica e filologica. Siamo quindi giunti ad una fase in cui il food è “fondamento e obiettivo” di nuove visioni sulla persona e sulle imprese, sul mercato e sulle dinamiche nella nostra società. Si è capito che l’Italia ha un grande patrimonio (quella che chiamo la “grande impronta”) che ha bisogno di valorizzazione ma anche di sviluppo. Chi di noi se ne occupa è deontologicamente chiamato a motivare e influenzare, informare e abilitare tutti coloro che ne vengano posti a contatto. Non ci possiamo più permettere, e non dobbiamo, di lasciare solo questo grande settore produttivo e culturale nel nostro paese. Settore che, non va dimenticato, presenta circa 816 mila imprese e circa 400 mila occupati».