Depurazione acque, un piano da 20 miliardi per pulire i fiumi e fertilizzare i campi
Entro il 2050 sarà esaurito il fosforo minerale per produrre i fertilizzanti che servono almeno a mettere una pezza all’impoverimento dei suoli agricoli.
Così, una risposta mica da poco, può arrivare dal riciclo dei fanghi di depurazione; cioè da quel rimasuglio, più o meno essiccato, che resta dopo i complessi procedimenti della depurazione delle acque nei depuratori e che, oggi, normalmente viene smaltito in discarica perché non c’è ancora un mercato vero dei fertilizzanti prodotti dai depuratori.
Questo è un risvolto concreto che la corretta depurazione delle acque può avere sul cibo prodotto nei campi.
Oggi, i campi vengono irrigati con acqua più o meno pulita prelevata direttamente dai fiumi (quasi prosciugandoli) oppure da falda con costosi pompaggi. Ma c’è anche chi prova ad irrigare direttamente con acqua fortemente inquinata da scarichi di fogna. Questa pratica si ritiene possa essere utile per “dare da bere e da mangiare” alle piante, ma anche se contribuisce ad apportare nutrienti al terreno, crea anche enormi problemi di contaminazione sia da sostanze chimiche industriali presenti negli scarichi fognari che di contaminazione da batteri, come insegna il caso dei germogli di soia contaminati da batteri fecali che, coltivati in Egitto, venivano commercializzati in Germania, dove hanno fatto ammalare diverse persone.
Insomma, la depurazione delle acque è non solo un generico obiettivo ambientale, ma si porta dietro importanti potenzialità nel campo agroalimentare.
Anche per questo, il governo pensa a un grande piano per la depurazione delle acque e per legare i depuratori anche al sistema agricolo.
Si tratta di riaprire la “stagione della depurazione” che fu avviata negli anni ’80 e poi miseramente interrotta.
Intanto, si deve ripartire dagli investimenti infrastrutturali.
«Dobbiamo essere in grado di superare i gap infrastrutturali con un’accelerazione degli investimenti e un effetto positivo sui livelli occupazionali. Federutility li stima in una fascia compresa fra 160.000 e 220.000 posti di lavoro», ricorda Erasmo D’Angelis responsabile della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche della Presidenza del Consiglio.
I dati che riguardano la depurazione e tutto il sistema idrico nazionale sono riportati nel portale dell’acqua (http://www.acqua.gov.it) che raccoglie i dati di interesse del settore idrico. Nasce da un progetto di collaborazione tra la Struttura di missione di Palazzo Chigi #italiasicura e l’Istituto Nazionale di Statistica. Il portale fornisce i contenuti tecnici relativi al mondo dell’acqua forniti da diverse Amministrazioni e disponibili in formato open data e su mappa interattiva. Per aumentare la consapevolezza dell’importanza del settore idrico, #italiasicura ha lanciato oggi anche la campagna di comunicazione sull’acqua con uno spot tv
Ma la fotografia scattata dalla Presidenza del Consiglio è desolante. Basta andare dal Lambro al Crati, ai torrenti siciliani e leggere il report 2015 sulle acque reflue urbane dell’Arpa Sicilia.
«Case e uffici di oltre la metà dei siciliani non sono allacciate ad una rete di fognatura o ad un depuratore, il 30% dei depuratori rilevati non è controllato, un terzo del restante 70% sui quali si effettuano i controlli non funzionano. Nel dettaglio, quasi 2 milioni di persone scaricano nei corsi d’acqua, nel mare, nelle campagne o dove capita. In tutta la Regione risultano 431 impianti di trattamento delle acque reflue urbane, la maggioranza non sono attivi ovvero non sono connessi alla rete fognaria esistente e versano in stato di abbandono e degrado totale».
Così a 21 anni della legge Galli del 1994 che dettava le regole per la gestione dell’acqua, cinque Regioni non hanno nemmeno ancora definito l’assetto degli enti d’ambito e i gestori: Sicilia, Calabria, Campania, Lazio e Molise. (per Lazio e Molise le due leggi regionali sono state impugnate per incostituzionalità).
In molte parti del mondo, non esistono sistemi di collettamento e depurazione. In questa parte di mondo rientrano, ancora nel 2015, ancora alcuni territori di alcune nostre Regioni, in particolare due importanti Regioni con condizioni di criticità e arretratezza industriale: Sicilia e Calabria.
E 3 italiani su 10 non sono ancora allacciati a fognature o a depuratori, con quasi la maggioranza di chi vive in Sicilia, in Calabria, Campania, un 30% in Lombardia e Friuli. L’ultimo screening Ue disponibile del 2011 non lasciava dubbi: siamo in ritardo sulla capacità di depurazione, e i livelli di allacciamento a fognature e depuratori nelle 86 città con oltre 150.000 abitanti equivalenti, vedeva il 21,8% non connesso a fogna e il 41,9 non in regola con il trattamento secondario. Anche in grandi aree metropolitane.
A quasi 10 anni dal termine ultimo (2005) per la messa a norma dei sistemi fognari e depurativi prevista dalla Direttiva Ue del ’91/271 registriamo un forte ritardo nel rispetto degli obblighi assunti come Stato membro. Questa situazione ha condotto già a due condanne della Corte di Giustizia Europea e all’avvio di una terza procedura di infrazione che porterà inesorabilmente, se non si interviene con forza e determinazione sbloccando l’immobilismo cronico, alla terza sentenza di condanna, ed alla irrogazione di pesanti sanzioni.
«Tutte le Regioni sono oggi in infrazione. Il numero di agglomerati urbani non a norma supera i 1000, sparsi per il territorio nazionale. La Sicilia con 175 ha il maggior numero di agglomerati in infrazione. Segue la Calabria con 130. La Lombardia (con 128 infrazioni, di cui 14 agglomerati condannati e 114 in procedura) è pari alla Campania (125, di cui 10 condannati e 115 in procedura). In ballo ci sono sanzioni pesantissime, già rese note da Bruxelles. Penalità di mora fino a un massimo di 714.000 euro per ogni giorno di ritardo nell’adeguamento, a decorrere dalla pronuncia della sentenza entro il 2016. A ciò si aggiungerà una somma forfettaria calcolata sulla base del PIL, minimo 9,92 milioni, oltre a finanziamenti europei che possono essere sospesi. Multe salate quindi, ad oggi, per 19 Regioni e circa 2.500 Comuni fuorilegge (1.025 agglomerati in infrazione su 3.193 totali nei quali rientrano gli 8.017 Comuni italiani). Una nostra prima simulazione porta la cifra complessiva a circa mezzo miliardo di euro l’anno dal 2016 e fino al completamento delle opere».
Incredibile la stima dell’importo delle penalità infitte dall’Unione europea (in milioni euro) ITALIA 482: Sicilia 185, Lombardia 74, Friuli Venezia Giulia 66, Calabria 38, Campania 21, Puglia e Sardegna 19, Liguria 18, Marche 11, Abruzzo 8, Lazio 7, Piemonte e Val d’Aosta e Veneto 5.
Anche se per alcune regioni come il Piemonte la procedura sembra rientrata.
La relazione del novembre 2012 dalla commissione Ue al Parlamento e al Consiglio europeo vede l’Italia in gravissimo arretrato anche sul monitoraggio. Non si conosce lo stato ecologico del 48% delle nostre acque né lo stato chimico per oltre i tre quarti (78%) dei corpi idrici superficiali (nel resto dell’Ue le lacune sono in media del 15%). I dati sono poi aggiornati al 2009. I monitoraggi a livello regionale sono disomogenei e frammentari, come emerge dall’analisi effettuata da Ispra. Vengono monitorati i fiumi e i laghi di sole 15 Regioni su 20. Le Regioni che non hanno un monitoraggio fisso sono Umbria, Sicilia, Calabria, Basilicata e Sardegna. Ma i dati disponibili sono stati raccolti solo in 13 regioni (Abruzzo e Molise non li hanno trasmessi).
Questo disimpegno fa sì che per il 48% di fiumi e laghi italiani non è ad oggi nemmeno possibile eseguire la classificazione prevista dalla Direttiva Ue. Per quel 52% dei corpi idrici monitorati, la qualità è scarsa per il 16%, e generalmente crolla a valle dei centri urbani sia per carichi industriali fuorilegge che per l’impatto del carico urbano.
Solo due aree metropolitane italiane delle 10, quella fiorentina e torinese, hanno una depurazione vicina al 100%.
E allora serve un grande impegno per la depurazione dei nostri corsi d’acqua e delle nostre acque costiere.
«Le risorse per intervenire ci sono ma non vengono spese. Solo nel 2011 e nel 2012, con tre Delibere del CIPE, sono state finanziate a fondo perduto opere idriche per complessivi 2,5 miliardi di euro nelle Regioni del Sud (CIPE 62/2011 per 695milioni, CIPE 87/2012 per 121 milioni e CIPE 60/2012 per 1,6 miliardi). Inoltre, dal 2007 i fondi strutturali europei rappresentavano un tesoretto da avviare a cantiere per circa 4,3 miliardi di euro per 1.296 interventi. Il nostro monitoraggio ha verificato che appena 76 risultano oggi completati per circa 47 milioni di euro, 768 sono in corso per 1,5 miliardi di euro, mentre i restanti 452 per 2,7 miliardi li abbiamo trovati bloccati e non progettati e sono in fase di avviamento. C’è poi il caso della delibera CIPE 60/2012, 1,6 miliardi per 180 interventi in Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna relativi a opere di fognatura e depurazione, impegnati appena 300 milioni per 69 opere, il 18% dell’importo e in particolare in Puglia. 111 opere, le più grandi, per 1,3 miliardi (1.1 in Sicilia) sono a studi di fattibilità o ferme. Il Governo è già intervenuto con lo Sblocca Italia, stabilendo da un lato la revoca delle risorse stanziate dai soggetti attuatori inadempienti e l’invio di commissari governativi con l’obiettivo di aprire i cantieri. Allo stesso tempo vanno poste alcune condizioni per l’accesso alle risorse: l’attuazione della Galli, l’affidamento del servizio ad aziende che sappiano gestire un depuratore e l’esistenza di un adeguato sistema tariffario in grado di coprire seppur parzialmente le necessità di investimenti».
Il fabbisogno stimato per invertire il trend e sviluppare reti, impianti e manutenzioni è di almeno 50 euro ad abitante. Perché se non si inverte il ritmo la ricaduta economica si tradurrà in 130 miliardi di euro di costi per mancata modernizzazione, ai quali vanno aggiunti i rischi ambientali.
«E’ realistico aumentare l’investimento dei gestori da 1.3 miliardi l’anno a 2,5 miliardi l’anno. Aggiungendo i 400 milioni di euro l’anno di nuovi fondi pubblici di sostegno, abbiamo una cifra annua nei prossimi 6 anni di circa 3 miliardi. Se aggiungiamo i 2.5 miliardi non spesi e da spendere e siamo a investimenti nel ciclo 2015-20 di oltre 20 miliardi. La condizione minima per iniziare a portare il settore idrico a livello europeo».