Cinghiali radioattivi e virus Ebola, “controlliamo gli animali selvatici”
Scoperti ben 166 cinghiali radioattivi in Piemonte eredità della nube di Chernobyl del lontano 1987.
Gli animali selvatici prelevati dai cacciatori sono, utilizzabili, anche come fonte di dati sullo stato di salute dell’ambiente naturale e rivelano contaminazioni come quelle radioattive che altrimenti sarebbero difficilissime da scoprire.
E, inoltre, gli animali selvatici sono oggi il principale veicolo delle malattie emergenti che tanto spaventano i sistemi sanitari di mezzo mondo (Ebola, aviaria, mucca pazza etc.).
Sulla sanità della selvaggina e sul suo utilizzo come bioindicatore vigila l’Istituto zooprofilattico di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta con il Cermas, il Centro di referenza nazionale per le malattie degli animali selvatici con sede a Quart (AO) e con la normale attività di ricerca e controllo della sede di Torino.
Se n’è parlato oggi, 19 giugno 2014, in un convegno organizzato al Sermig di Torino.
Il messaggio è che i controlli sulla selvaggina non interessano solo i cacciatori, ma l’intera collettività.
Ma gli animali selvatici sono anche un formidabile indicatore dell’inquinamento.
Proprio l’Istituto zooprofilattico continua a svolgere i controlli sul Cesio radioattivo che ancora permane al suolo a 27 anni dalla nube di Chernobyl.
Per capire quanto sia ancora contaminato il nostro territorio l’analisi sui cinghiali è il modo migliore.
E il numero di cinghiali “radioattivi” scoperti dall’ Istituto Zooprofilattico è salito a ben 166. L’allarme era scattato nel marzo dello scorso anno quando si accertò un alto tasso di Cesio 137 in 27 animali. Da allora l’ Istituto diretto da Maria Caramelli ha continuato a monitorare la situazione e analizzato1.441 campioni (all’ 85% si tratta di carcasse di cinghiali, per il resto di camosci, caprioli, cervi, daini, tassi, volpi). Anche i nuovi casi di cinghiali radioattivi provengono dalla provincia del Verbano-Cusio-Ossola e dalla Valsesia.
Ma il controllo della selvaggina va mantenuto ad alti livelli anche perché, la novità degli ultimi anni, è che il cacciatore in Piemonte come in molte altre regioni può finalmente vendere la selvaggina che gli appartiene per legge se cacciata legalmente.
A questo punto, il cacciatore, si è detto, diventa un vero “produttore primario” di carne, un vero operatore della filiera alimentare.
E per questo il cacciatore deve essere formato, deve avere alcune nozioni di veterinaria e di buone pratiche di trasporto e conservazione della carcassa perché la carne di cinghiale o cervo che vende a un ristorante o a un macellaio, possa considerarsi sicura.
Così in Piemonte sono ormai centinaia i cacciatori che hanno frequentato i corsi di Asl e ambiti di caccia e che sono quindi autorizzati a vedere le proprie prede.
“I cacciatori autorizzati – ha ricordato Carlo Raschio, veterinario in servizio in Regione Piemonte – sono in possesso di un attestato e devono indicare su appositi moduli data e luogo di cattura dell’animale. Se si tratta di “cessione occasionale”, possono vendere solo modiche quantità di selvaggina che vuol dire: un solo capo di grande selvaggina (cinghiale, capriolo, cervo, daino, camoscio, muflone) e un massimo di 50 capi di “piccola selvaggina” (lepri, minilepri, colombacci, fagiani etc). Il cacciatore deve saper riconoscere i segni delle principali malattie animali trasmissibili all’Uomo, deve utilizzare munizioni che non contaminino la carcassa, deve colpire l’animale in un punto mortale ma che non inquini le carni (vietato colpire stomaco, rumine o intestino), deve dissanguare subito la spoglia, eviscerarla”.
Per le cessioni non occasionali si deve passare da un centro di lavorazione della selvaggina autorizzato, che può essere privato o pubblico (recentemente ne è stato aperto uno nel Pinerolese) dove un veterinario provvederà a certificare lo stato sanitario e di conservazione della carcassa apponendo il classico “bollo” che permette la vendita in macelleria e al ristorante.
In Italia si consuma, comunque, ancora solo 2,5 Kg di selvaggina pro capite l’anno, ma ad alzare una media che altrimenti sarebbe molto più bassa contribuiscono le arre rurali dove la tradizione venatoria è più radicata. Per restare in Piemonte, in un territorio con appena 70mila abitanti come quello della bassa valle di Susa e val Sangone in provincia di Torino si abbattono ogni anno oltre 500 cinghiali, che equivalgono a circa 25 tonnellate di carne consumate quasi tutti in loco.
“Ma in Italia è in aumento la voglia di sperimentare nuovi alimenti – ricorda Riccardo Orusa, responsabile del Cermas di Quart – E tra questi sono sempre più richieste le carni esotiche, provenienti da tutto il mondo. Se l’istituto zooprofilattico vigila sulle carni di bovini importate dall’Argentina o dal Texas, ricordiamoci che in tutta Europa si stanno diffondendo gli allevamenti di animali selvatici e che si stanno proponendo ai consumatori carni nuove come la carne di orso, o di altri animali, come l’armadillo o persino la nutria. È dunque importante approfondire le conoscenze sulle patologie e sulle filiere che riguardano queste carni”.
Poi ci sono le malattie umane che si possono tenere sotto controllo solo se si tengono sotto controllo gli animali che le veicolano.
“Ebola sta spaventando tutta l’Africa – continua Orusa – sappiamo che è una malattia emorragica trasmessa dal un pipistrello. In pratica le persone trovano pipistrelli morti e li manipolano anche per cucinarli. Ecco un esempio di come per fermare una malattia terribile in forte espansione la prima cosa da fare sia tenere sotto controllo le popolazioni di animali selvatici, in questo caso i pipistrelli”.
“Il convegno – dice Maria Caramelli, Direttore Generale dell’Istituto Zooprofilattico – affronta diverse prospettive: di chi caccia e di chi coltiva, di chi consuma i prodotti della cacciagione, di chi vende la selvaggina e di chi fa i controlli”. Oggi la carne di selvaggina viene consumata in preparazioni inedite, come i salami di cinghiale freschi, che non fanno parte di una tradizione che riservava al cinghiale cotture prolungate o stagionature più’ lunghe in grado di evitare rischi importanti, come le parassitosi, tra cui la pericolosa Trichina, o la presenza di batteri dannosi per l’uomo. Senza dimenticare i rischi associati alla presenza di metalli pesanti e pesticidi, diffusi come contaminati nell’ ambiente dove vivono e si nutrono questi animali, e di radionuclidi, come nel caso dei “cinghiali radioattivi” scoperti l’anno
scorso, residuo della contaminazione di Chernobyl”.