Bottura riporta la selvaggina nell’alta cucina
Da Bottura a Romito, la selvaggina è stata tra i protagonisti della dodicesima edizione di Identità Golose, incurante della polemica animalista sul petto di piccione cucinato a Masterchef su indicazione di Carlo Cracco.
La principale kermesse gastronomica italiana ideata e diretta dal giornalista e critico Paolo Marchi è terminata martedì 8 marzo a Milano facendo il tutto esaurito e riabilitando, appunto, la carne di animali liberi che vivono nei boschi e dei campi e bissando così il messaggio già lanciato nell’edizione 2013 quando si parlò chiaramente della selvaggina cacciata come risorsa di grande valore.
Intanto, proprio il piccione è stato riproposto da Niko Romito, di fronte a un auditorium del Mico di via Gattamelata gremitissimo. È vero che il piccione non è un uccello selvatico, ma è semplicemente il colombo torraiolo allevato fin dal tempo degli Etruschi nelle nostre campagne per la carne (e poi dal Rinascimento anche per le comunicazioni militari). Ma l’abruzzese Romito, che è un altro pezzo da novanta della cucina italiana, ha mostrato il suo piatto al petto di piccione proprio per ribadire il valore dell’attaccamento alla sua terra e alle tradizioni culinarie fatte di carne di agnello, piccioni e, appunto, selvaggina.
Stessi valori a cui ha fatto un chiarissimo riferimento soprattutto Massimo Bottura, tre stelle Michelin con il suo ristorante Osteria Francescana di Modena che è anche uno dei 50 migliori ristoranti del mondo. Bottura, è anche lo “chef sociale” che ha creato la fondazione Food for Souls e ha lanciato il progetto del “Refettorio Ambrosiano” che offre cucina di alta qualità ai poveri.
Nella sua performance culinaria ad Identità Golose, Bottura ha proposto il piatto «Talvolta germano, qualche volta pernice, oppure bollito». Nella presentazione ha detto: «La caccia fa parte del nostro passato e della tradizione del nostro Appennino. Mio nonno era cacciatore e l’immagine della caccia è passata in me attraverso i racconti delle nonne, rimanendo viva dentro di me. Credo che la caccia faccia parte della nostra identità, così come la raccolta dei preziosi frutti del bosco, ad iniziare dai tartufi. Per questo abbiamo deciso di sostenere la filiera della caccia di selezione, insieme alla macelleria Zivieri».
La partnership Bottura-Zivieri parte dalla scelta della celebre famiglia di macellai di Monzuno (BO) di rilevare nel 2013 il macello per selvaggina di Castel di Casio, creato nell’Appennino bolognese per commercializzare la carne degli ungulati.
Da 3-4 anni, infatti, in alcune regioni (prime tra tutte Emilia Romagna, Piemonte e Toscana) è possibile per i cacciatori di selezione vendere la selvaggina cacciata: una scelta legislativa nata per stroncare il mercato nero verso i ristoranti e per dare valore economico al prelievo di animali “allevati a terra” perché selvatici e a Km zero. Animali in esubero che provocano danni alle colture e ai boschi ma che possiedono una carne magra dall’altissimo valore nutrizionale. Così, con l’autorevole collaborazione del grande chef Bottura, chiude il cerchio il progetto del macello della Zivieri Massimo Srl per cinghiali, cervi, caprioli e daini cacciati in base ai piani di abbattimento approvati dalle Province emiliane dietro validazione dell’Istituto superiore di protezione ambientale del Ministero dell’Ambiente.
Il macello Zivieri è sostenuto anche dal Gruppo di azione locale dell’Appennino bolognese e dall’Unione dei Comuni dell’Appennino bolognese. Produce carne fresca delle quattro specie, in pezzi (fesa, coscia, carrè con osso), tagliata e porzionata, macinata per ragù o insaccata in salciccia e salami.
«Una disponibilità di materia prima precaria – ha precisato lo stesso Bottura – perché precario è l’esito della caccia, soggetta alle leggi che la regolano e alle stagioni venatorie, ma condizionata anche dal clima e soprattutto dall’abilità e dalla fortuna del cacciatore».
Carne precaria, certo, ma ora che lo ha fatto Bottura, la strada per la rivalutazione della selvaggina è tracciata. Con Bottura, le carni “nere”, come erano chiamate un tempo per il loro forte contenuto di emoglobina, non sono più relegate alle allegre domeniche in rifugio della polenta e cinghiale. Con la discesa in campo del grande chef, il suino dei boschi, insieme al cervo e al capriolo, ritornano nell’alta cucina. Ed è sicuro che l’esempio sarà seguito aprendo la strada a un vero mercato diffuso.
Una filiera piccola, che ha, però, una forte impronta culturale. Una cultura del bosco che ha influenzato quello che Bottura chiama il “palato mentale”, essenziale per un vero cuoco. «Un palato che non solo “sente i sapori” ma che sa ricordare, che sa comporre sfumature di gusto che arrivano dalla storia personale e dalla cultura di un territorio o dei territori che si sono frequentati con i viaggi».
Palato mentale, dunque, stimolo intellettuale che spinge a ricercare la tecnica migliore per sposare tradizione e creazione. «Talvolta germano, ogni tanto pernice, ma anche bollito». Oppure talvolta cinghiale e ogni tanto cervo o capriolo. A seconda del menù.